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Immagine del redattoreSergio Ivan Roncoroni

Fall un film pieno di vertigini....

Dopo gli attentati e le rapine dei precedenti action thriller Final Score e Heist, Fall, il nuovo film di Scott Mann, ci invita a “guardare in alto, soltanto in alto”. Guardare prima alle montagne rocciose e alla scomparsa di Dan (Mason Gooding), caduto durante un’uscita di arrampicata insieme alla fidanzata Becky (Grace Caroline Currey) e all’amica Shiloh Hunter (Virginia Gardner). Quindi alzare lo sguardo in direzione di una torre di trasmissione alta più di 700 metri, dalla cui cima le due sopravvissute vorrebbero spargere le ceneri dell’amante e amico defunto per rendergli omaggio. Una scalata da brivido nel bel mezzo del nulla, destinata a trasformarsi in un incubo votato alla sopravvivenza.

Fall è un’opera dall’eco pirandelliana, costantemente in cerca d’autore.

Scott Mann guarda in alto, soltanto in alto, forse troppo in alto, dimenticando di curare a dovere le fondamenta di un film che non manca di ambizione, bensì di consapevolezza. Vorrebbe richiamare la saga di Mission: Impossible – in apertura il personaggio di Dan nomina Ethan Hunt e le due attrici protagoniste fanno persino da stuntman di loro stesse – ma manca del fascino dell’icona Cruise e di una scrittura solida e coinvolgente.

Potrebbe inserirsi nel filone dei survival movie alla 127 ore, ma scarseggia di intuizioni e di una calibrata introspezione psicologica in grado di elevare personaggi che, purtroppo, rimangono figurine, silhouette prive di spessore ritratte dal regista nella cornice di un tramonto.

Presentato al pubblico come “un’esperienza adrenalinica da vivere solo al cinema“, funziona nei brevi intervalli di minutaggio in cui sceglie di giocare con se stesso – durante la scalata Becky, nel tentativo di sciogliere la tensione, canticchia “giro giro tondo, casca il mondo, casca la terra, tutti giù per terra” – e abbracciare, per dirla alla Scorsese, la dimensione più congeniale del “parco divertimenti”.

Brividi e vertigini, tuttavia, lasciano sovente il posto a riflessioni moraleggianti sulla caducità dell’esistenza che, pur sforzandosi di elevare il tono del film, conducono invece la già fragile e traballante struttura del prodotto a collassare su se stessa.

E lo spettatore si ritrova solo, disorientato, bloccato nel bel mezzo del nulla con un binocolo in mano, ad osservare in lontananza ciò che il film, svestito degli eccessivi drammi e dei gratuiti colpi di scena, sarebbe forse potuto essere.


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